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giovedì 28 maggio 2009

U carruzzinu



U carruzzinu

Vicino all’abitazione della mia famiglia, nel quartiere “fornace”, abitava Ninu Ustinu. Il quale, in effetti, si chiamava Antonino Spadaro, ma come sempre nei paesi, era più noto con il sopranome. Siccome qualcuno nella sua ascendenza aveva nome Agostino (“ustinu” in dialetto), la famiglia divenne “gli ustini”, vale a dire i discendenti di Agostino. Ricordo che fisicamente era uomo di media statura, piuttosto robusto, con i capelli tagliati a spazzola. Portava pantaloni fuori moda, senza le strisce di stoffa (passanti) che servono a infilare la cintura, con dietro una martingala che serviva per stringere alla vita il pantalone e una cintura che l’attraversava e stringeva davanti. Aveva una camminata particolare, con le gambe larghe e gettava i piedi, normalmente calzati di un paio di sandali, verso l’esterno alla linea di camminamento, per cui sembrava che battesse da un lato all’altro. Era di carattere molto buono e generoso, ma aveva una notevole curiosità e si fermava appena vedeva due persone che discutevano tra loro per sentire quello che dicevano, senza disdegnare di intervenire nella discussione anche se il suo parere non era richiesto. Anzi, proprio quando le due persone cercavano di non fargli capire l’argomento della discussione, lui diveniva ancora più curioso e cominciava a chiedere: “Eh, di chi stati parrannu, Eh?”.

Prima che le campagne fossero motorizzate con le moto ape, per portare i prodotti della terra al mercato, erano usati i carretti. Cresciuti i suoi figli, pensò di mandare il maggiore (Peppe) al mercato per vendere i propri prodotti e ricavare così qualche piccolo guadagno in più. Siccome i carretti non venivano più costruiti, bisognava trovarne qualcuno di seconda mano, ma non avendone trovato, ripiegò su un calesse (carruzzino), anche perché non erano molti i prodotti che bisognava portare al mercato. Comprò anche un mulo e così il figlio cominciò, di mattino prestissimo, a frequentare i mercati vicini di Milazzo e Barcellona.

Qualche volta, nei giorni festivi, i ragazzi del quartiere si riunivano e con Peppe o con Pietro, l’altro figlio, che guidavano il calesse, scendevano alla spiaggia. Il costo dell’improvvisato taxi si limitava ad una razione di biada per il mulo, da divedere tra i tre o quattro ragazzi che usufruivano della corsa in calesse.

Lentamente però i tempi cambiarono ed anche Ninu Ustinu si convertì al motore a scoppio e comprò la moto ape, vendette il mulo e mise il calesse in uno spiazzo dove rimase per molti anni. E lì sarebbe rimasto per sempre se ad alcuni giovani non fosse venuto in mente di fargli fare un giro per le strade del paese.

Qualche anno dopo difatti, una gruppo di giovani bontemponi, composta da Barbaro Previte (Barbarino l’autista dell’autobus) Pietro Colosi “U sauro” (per i capelli rossi del padre), Saro di Salvatorello ed altri, mentre una notte vagava per le strade del paese, notò il calesse parcheggiato nello spiazzo antistante l’abitazione di Ustinu. Si guardarono l’un l’altro ed ebbero un’intuizione: bisognava riportarlo in vita e fargli fare un viaggio! Uno si mise al posto del mulo e gli altri a spingerlo di dietro, fino a portarlo al Chiano Jnnaro (attuale Piazza Certo). Colà giunti lo appoggiarono al muro della casa di Giovanni Polito, detto Mafara (cioè “mafia” per i suoi trascorsi di gioventù piuttosto turbolenti), vi apposero un cartello con scritto “si vende” ed andarono via. Occorre sapere che tra il Giovanni Polito e Antonino Spadaro non correva buon sangue, infatti i due per motivi poco noti avevano avuto in passato qualche screzio e pertanto non si rivolgevano la parola.

L’indomani mattino, appena sveglio, il Polito si avvide del calesse e chiese notizie su chi fosse il proprietario e perché l’avesse appoggiato al muro della sua casa. Appena conosciutone il nome cominciò a gridare: “ma come si permette stu cristiano di mettere cà u so carruzzinu, picchì non su metti a so casa, picchì non su leva”. Qualcuno riferì subito la faccenda a Ninu Ustinu che assieme al figlio Pietro, andò subito a prendere il calesse per riportarselo a casa. Naturalmente il tutto sotto lo sguardo del Polito che continuava nei suoi impropri. Arrivato a casa, molto arrabbiato, sia per lo sforzo sostenuto nella qualità di autista del calesse, mentre fungeva da motore il figlio Pietro che spingeva da dietro, sia per l’umiliazione inflittagli dal Polito, rimise al suo posto il calesse. Ma per essere sicuro che il fatto non si ripetesse, pensò bene di togliere le ruote e conservarle in un magazzino. “Videmu ora si sunnu capaci mi su portunu” disse Ninu molto arrabiato e con l’approvazione della famiglia nel frattempo raccoltesi attorno.

La domenica seguente, all’uscita dalla Chiesa Matrice, dopo la prima Messa (sei e mezzo del mattino), seguendo lo sguardo dei curiosi vide il suo calesse appoggiato al muro della chiesa con un cartello: ”Per mancanza di compratore si cambia piazza, si vende”. La gente cominciò a fermarsi e a sorridere facendo dei commenti piuttosto ironici. Il povero Ninu non sapeva come reagire. Essendo il calesse senza ruote non poteva da solo muoverlo, anche se sicuramente in cuor suo, sarebbe stato desideroso di metterselo sulle spalle e portarselo via, pur di interrompere i commenti ed i sorrisi. Poteva semplicemente imprecare: “malanova mi hanno”. Dopo un poco si avvicinò Battista Aloi “u ferraru” (il fabbro) e gli chiese se voleva vendere il calesse, perchè lui, come fabbro, avrebbe utilizzato le parti metalliche per forgiare ferri di cavallo. Dopo breve trattativa il calesse cambiò proprietario e così Ninu Ustinu se ne tornò tranquillamente a casa sua. Pensava che finalmente fosse tutto finito e che non avrebbe più sentito parlare del calesse. Invece qualche sera dopo sentì bussare alla sua porta, si affacciò dal balcone, chiedendo chi fosse e sentì una voce proveniente da un gruppo di giovani: “Semu chiddi chi vi ficiru vinniri u carruzzinu e vulemu a sinsalia” (siamo quelli che vi hanno fatto vendere il calesse e vogliamo la provvigione). Alle imprecazioni e minacce di Ninu Ustinu i giovani si allontanarono ridendo e dicendo “Viditi che ricuniscenza, mancu a sinsalia ni voli dari, ma nui annamu unni l’avvucatu e poi videmu!” (Gurdate ceh riconoscenza, nemmeno la provvigione ci vuole dare, ma noi andiamo dall’avvocato e poi vediamo).

Fu così che finì la storia di un calesse in San Pier Niceto

Nino Micale

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